L'ANTICA ARISTOCRATICA

TAVOLA ALTINATE
Giampiero Rorato  -  Leonardo Trevisan

 

 

L'antica aristocratica Tavola Altinate

Antiche storie di viti e di vini

Ricettario per una cena romana

La qualità dei vini del Veneto
Orientale e del Basso Friuli

L’anno 131 a.C. ha segnato per Altino e per la regione d’attorno l’inizio di una nuova primavera anche nel settore agroalimentare. Fino ad allora c’erano in terra veneta una cultura e una tradizione alimentare che venivano da lontano e che si erano arricchite nel corso del tempo grazie allo sviluppo delle conoscenze e della civiltà e da numerosi utili rapporti intessuti con gli Etruschi a sud e, più tardi, coi Celti a nord. Come ha scritto Tolomeo e come hanno comprovato le scoperte archeologiche, Altino era nel primo millennio a.C. importante centro paleoveneto e in città c’era un continuo fervore di attività e iniziative. 
La cucina era ricca e varia e, come attestano residui faunistici e botanici ritrovati in vari centri paleoveneti, nelle case del tempo si preparavano piatti a base di erbe spontanee di campo, uova, carne di pecora, agnello, bue, maiale, cavallo, uccelli e ancora molluschi, crostacei e pesci e poi grano e altri cereali, noci, nocciole e altra frutta. Sono stati trovati negli scavi anche degli ami uncinati, segno che l’attività della pesca era molto diffusa e il pesce di fiume, di laguna e di mare faceva spesso la sua comparsa sulle tavole della città paleoveneta posta proprio sulla gronda della laguna.  
Come afferma Marco Valerio Marziale (40-102 d.C.) in un suo epigramma: “In
Venetis sint lauta licet convivia terris – principium cenae gobius esse solet”, cioè: “Nella terra dei Veneti (e quindi soprattutto ad Altino che si trova sulla sponda della laguna) anche nei pranzi più ricchi si suole servire per primi i gò” (Xenia, 88).
A sua volta Plinio il Vecchio (27-79 d.C.) non manca di sottolineare la ricchezza del pesce altoadriatico che si trova al mercato di Altino: “...
hi autem… Altini… petunculi, purpurae, negride, pina, pinoteres, rhine, quem squatum vocamus, rhombus, scarus, principalis hodie, solea, sargus, squilla, sarda, scomber, …”, cioè: “ si trovano ad Altino… i pettini piccoli (canestrelli), le porpore, le negride, la pinna, il pinoteres, le rhine, che noi chiamiamo squadro, il rombo, lo scaro, oggi il principe dei pesci, la sogliola, il sargo, la squilla, la sarda, lo sgombro, …” (N.H., 32,150-151). 
Alle spalle della città vi era una intensa attività agricolo-pastorale e per quanto riguarda gli ovini abbiamo ancora la testimonianza di Marziale: “Velleribus primis  Apulia, Parma  secundis nobilis: Altinum  terzia audat l ovis” cioè: “Prima la Puglia, poi Parma, quindi Altino: ecco le lane migliori” (Apophoreta, 155).
Ed anche in seguito la lana delle pecore di Altino è molto pregiata e ricercata, come conferma lo stesso Diocleziano, nell’Edictum de pretiis (Editto sui prezzi) del 301 d.C. E se la lana era così famosa fino a Roma doveva per forza esserci abbondanza di pecore. Columella ci assicura poi che le piccole vacche di Altino erano molto lattifere: “
Melius etiam in hos usus Altinate vaccae probantur, quas eius regionis incolae cevas appellant. Eae sunt humilis staturae, lactis abundantes, propter quod remotis earum fetibus generosum pecur alienis educatur uberibus”, cioè: “Ma per l’allattamento dei vitelli sono raccomandate le vacche di Altino che gli abitanti di quella regione chiamano ceve. Sono di bassa statura, abbondanti di latte; allontanati i loro vitelli, le bestie di razza si allevano alle poppe straniere” (VI, 24,4-5).
Non mancava l’attività venatoria e Grazio “Falisco”, poeta dell’età augustea, contemporaneo di Ovidio, nell’opera Cynegetica dedicata all’arte della caccia, cita le ginestre di Altino, i cui steli, afferma, sono ottimi per fabbricare piccole frecce adatte appunto alla caccia. C’era inoltre un intenso commercio che si sviluppava lungo i corsi d’acqua e in laguna, con scambi di prodotti fra città e villaggi, anche molto lontani fra loro.
Merita qui ricordare che a quei tempi l’agricoltura e l’allevamento del bestiame erano di pertinenza degli uomini, mentre le donne avevano il compito di raccogliere i tanti tipi di erbe, officiali e alimentari, che caratterizzavano il cibo e la farmacopea del tempo, macinare i cereali, setacciare e impastare la farina trasformandola in pane, pasta e dolci; le donne dovevano inoltre allevare gli animali domestici, come il maiale e soprattutto avevano il compito di preparare il cibo quotidiano.
Quando arrivarono i Romani per costruire la via Annia trovarono una città sicuramente diversa dalle loro, ma piena di vita, con un buon tenore alimentare, grazie anche, come abbiamo visto, alla facilità di produrre e reperire le materie prime.

Dopo il 131 a.C., quando si hanno le prime centuriazioni, aumenta nei residenti l’interesse per l’agricoltura e l’allevamento del bestiame: cresce il numero dei bovini necessari per il lavoro agricolo; nei campi ben coltivati si semina e si raccoglie il grano; si coltivano negli orti di casa l’insalata e altri ortaggi, fra cui gli asparagi; si impiantano i primi vigneti.
I Veneti assorbono senza troppa fatica gli apporti dei nuovi arrivati anche perché scoprono subito che così facendo arricchiscono la propria tavola dove ora compaiono del buon pane lievitato, vino bianco e rosso, minestre vegetali, paste fritte, pesce e carne alla brace, insaccati di carne, specie di maiale, molto formaggio, lumache saporite, insalate miste, ecc.. Si tratta, in sostanza, di quelle preparazioni che, più tardi, saranno raccolte in un ricettario attribuito, nella tarda latinità, al gastronomo Marco Gavio Apicio.
Sul finire del primo secolo a.C. e in quelli seguenti Altino si abbellisce di palazzi, monumenti e piazze, tanto che Marziale esclama: “
Aemula Baianis Altini litura villis”, cioè: “Rive di Altino che rivaleggiate con le ville di Baia” (4, 25, 1) e allorquando Druso dà il via alla costruzione della strada diretta a nord, oltre le Alpi, la conquistata civiltà della tavola si espande verso l’interno, propagandosi velocemente nella pianura, verso Tarvisium, verso Opitergium e fin nelle terre oltre il fiume Piave, negli ondulati  colli ricoperti di boschi a ridosso delle Prealpi.
Anche in queste zone che appaiono allora brulle e selvagge ci sono villaggi paleoveneti ove vive una popolazione di antichissima origine con nel sangue cromosomi euganei e, più recentemente, anche celtici.
I secoli passano e Altino, dopo l’arrivo degli Unni e la fuga degli abitanti verso Torcello, viene avvolta dal silenzio e dall’oblio. Ma le conquiste e le esperienze maturate negli anni del grande fervore non scompaiono del tutto. Dell’Annia e della Claudia  Augusta  restano qua e là  pochi segni, ma  la civiltà  che s’era  sviluppata  lungo gli antichi itinerari, le tradizioni che da Altino s’erano diffuse verso la Venezia Orientale, verso la Sinistra Piave, il Feltrino, le vallate alpine e, più in là, verso la Baviera e la Germania non sono andate perdute.
Nuove strade sono state costruite, reali e anche virtuali, come le “Strade dei vini”; non c’è più la Claudia Augusta ma ci sono la Pontebbana e l’Alemagna ed attorno una rete viaria che porta per più itinerari verso le valli alpine e oltre le Alpi, così come non c’è più la via Annia ed al suo posto c’è la statale Triestina che va verso Concordia, Aquileia e Trieste.
E, guardando dall’alto, si vedono ancor oggi nitidissimi gli antichi iugeri delle centurazioni di Altino, di Treviso, di Ceneda, di Oderzo, di Concordia, di Aquileia e la terra è coltivata a cereali, a viti e a prativi, proprio come un tempo, con i resti dell’antica Silva Magna che i coloni romani e veneti costrinsero in aree sempre più ridotte.
Attorno alle case coloniche ci sono orti che d’estate sono esuberanti d’ortaggi, aie popolate d’animali domestici e ci sono ancora le stalle, ridotte di numero ma arricchite d’animali bovini; si vedono dall’autunno alla primavera innumeri greggi di pecore e capre brucare l’erba residua dei prati e lungo prode e gli argini dei corsi d’acqua; ci sono ampie coltivazioni di frumento, di mais, di barbabietole da zucchero; ci sono vigneti curatissimi e, verso i primi rialzi pedemontani, si incontrano boschi ancora folti d’essenze antiche, rifugio a molte specie d’uccelli e animali selvatici e si trovano diverse varietà di funghi, chiodini, porcini, cantarelli e altri ancora.
Lasciata la gronda lagunare, appena più a nord di Altino, tra Roncade, Casale sul Sile, Casier e Treviso si vedono nel tardo autunno e nell’inverno le vaste coltivazioni del radicchio rosso di Treviso, una delizia gastronomica dolce e croccante che nobilita la cucina invernale e soprattutto natalizia e che i trevigiani fanno giungere nelle tavole più prestigiose del mondo.

E attorno a questa aristocratica cicoria c’è, da dicembre a febbraio, un susseguirsi di feste, esposizioni e rassegne gastronomiche capaci di richiamare buongustai d’ogni parte.
La coltivazione del radicchio rosso, che subisce una straordinaria operazione di forzatura e imbianchimento lontano dalla luce del sole, risale alla metà dell’Ottocento e la prima mostra-mercato di questo prezioso dono dell’inverno si è tenuta sul finire di quel secolo sotto la loggia del Palazzo dei Trecento a Treviso e da allora ogni anno la tradizione si rinnova e si arricchisce con crescente successo e soddisfazione per produttori e buongustai. Conclusa la stagione del radicchio, quando la primavera regala i primi dolci tepori, ecco svilupparsi in queste terre e soprattutto lungo il Sile una nuova cucina, quella delle erbette spontanee di campo e, tra aprile e maggio, quella degli asparagi, soprattutto bianchi, che hanno la loro capitale a Cimadolmo, a ridosso del Piave.
La cucina più attuale, lungo gli itinerari della Via Annia e della Claudia Augusta, ma in tutta la gronda veneziana, la bassa friulana e nella Marca Trevigiana, è ancora felicemente legata ai prodotti del territorio e al volgere delle stagioni, in un susseguirsi di sensazioni gustative, di piatti, di preparazioni che hanno fatto di quest’area una delle più felici del nostro paese.
Ci sono ovunque ristoranti e trattorie, anche nei più minuscoli borghi di campagna, dove accanto a una eccellente bottiglia di vino si trovano condensate le tradizioni sviluppatesi nel corso dei secoli.
La cucina del pesce, che caratterizza da sempre la zona altinate, si ritrova anche all’interno, portata nei secoli d’oro dalla Serenissima dal patriziato veneziano che ovunque ha fatto costruire dai maggiori architetti del tempo delle splendide ville, per trascorrere lontano dagli affari, dalla confusione e soprattutto dall’afa di Venezia i mesi allegri e spensierati della villeggiatura che si concludeva dopo la vendemmia.
La cucina veneziana di pesce è senza dubbio una delle più importanti e significative nel grande quadro della gastronomia mondiale. Venezia ha fatto scuola, anzi, la sua cucina è all’origine della gastronomia occidentale, come quella cinese è alla base della cucina orientale: due scuole, due avventure gastronomiche che non hanno uguali nel mondo.
Da Altino dunque, risalendo verso le Alpi, si incontrano ottime tavole imbandite, i cui piatti nascono da tradizione millenaria, sostenuti da una sapienza alimentata dai tanti apporti che Venezia ha saputo cogliere per secoli nei suoi rapporti col mondo, da Bisanzio a San Giovanni d’Acri, dalla Tana alle foci del Don, laggiù nel Mar d’Azov, al Nord Africa, dalla Grecia e dalle sue tante isole alla Spagna e fino alle isole Lofoten e ai porti della Lega Anseatica, dove andava ad acquistare, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, quello stoccafisso che i veneziani hanno sempre chiamato baccalà e che a Venezia e nel Veneto è stato sempre preparato in modo a dir poco insuperabile.
Per comprendere il valore della cucina di questo territorio basterebbe citare (fra i tanti raccontati da Giuseppe Maffioli nei suoi libri:
La cucina veneziana, 1982 e, La cucina Trevigiana, 1983, entrambi editi da Franco Muzzio, Padova) pochi piatti: la “sopa coàda” di Treviso e Motta di Livenza, di origine rinascimentale; la pasta e fagioli, la vasta gamma dei risotti veneziani e trevigiani, uno per ogni giorno dell’anno; i “brodetti” di pesce  alla moda  dei pescatori; gli “scampi in bùsera” di origine dalmatica; le “sarde in saòr” presenti fin da quando Venezia conquistò, nel 1205, Costantinopoli, la splendida capitale dell’Impero Romano d’Oriente; le fritturine croccanti; l’anatra bollita; il cappone natalizio e ancora la  pinza epifanica, la “fugassa” pasquale, i “zaletti” e i “baìocoli” veneziani; la “fregolotta”, la "zonclada" e il “tiramisù” trevigiani ecc..
Lungo l’antico itinerario segnato da Druso, nella vasta pianura che s’alza via via verso i monti, nonostante la civiltà contadina abbia lasciato posto a quella industriale e postindustriale, si trovano ancora numerose le vecchie case coloniche venete col portico dagli archi a pieno sesto e attorno aie festose, maiali che arricchiscono le tavole invernali, orti ben curati, vigne e frutteti, dove la più moderna tecnologia produttiva ha saputo riportare la terra alla pulizia d’un tempo, eliminando in tutto o quasi quei prodotti inquinanti che hanno caratterizzato l’agricoltura nei primi decenni dell’ultimo dopoguerra.
Superato il Piave, dove l’antica strada si biforcava, presso la silente chiesetta di S. Anna, s’incontrano nuovi prodotti e nuove tradizioni. Sulle colline del Quartier del Piave e, appena di là del fiume, sull’antica ruga del Montello, alti, sopra le vigne di Prosecco e di Verdiso, s’espandono i vecchi alberi di castagno che sul tardo autunno offrono abbondanti i loro frutti ad animare non solo tante feste paesane, ma una cucina solo apparentemente povera, perché, attingendo con bravura ai prodotti del bosco, alle erbe montane, ai funghi, alla frutta invernale, sa donare una ricchezza di gusti e di sapori capaci ancora una volta di affascinare il buongustaio.
E si incontra ancora l’antica tradizione romana dello spiedo, simile in molto a quella diffusa secoli dopo in tutta la Pedemontana dai guerrieri di Alboino ed oggi, a cominciare da Pieve di Soligo, la gente si raccoglie festosa nelle piazze attorno agli enormi spiedi di carni miste, ricollegandosi così con la storia e le tradizioni più antiche. Nei prati collinari poi, nelle stalle e nelle malghe d’alta montagna, vivono mandrie di mucche e di vitelli e si producono burri e formaggi: schiz, caciotta, casatella, Morlacco, ma soprattutto Montasio e, poco più il là Asiago e Vezzena, tutti di ottima qualità, ed anche questi alimentano le accoppiate gastronomiche che qui, ma non solo qui, caratterizzano la cucina popolare: “polenta e formaggio”, “polenta e funghi”, “polenta e osèi”, “polenta e tòcio”, “polenta e figadèi”, “polenta e pesce”, polenta e un sano bicchiere di vino rosso, per celebrare la continuità di una storia affascinante che, iniziata ad Altino oltre due millenni or sono, ci si augura possa continuare nel terzo millennio, per far conoscere e godere alle generazioni che verranno colori, profumi, gusti e sapori che arricchiscono da sempre queste plaghe operose.

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Aquileia e
l' antica cucina romana

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